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La Voce 45 del (nuovo)Partito comunista italiano
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Delocalizzazione e costo del lavoro
Che i capitalisti spostano le fabbriche in paesi dove il
lavoro costa di meno, è un luogo comune. In suo nome i capitalisti e i loro
sindacalisti, portavoce e autorità esercitano mille pressioni e ricatti sugli
operai perché accettino salari inferiori, perché rinuncino a conquiste e diritti
di cui non sono ancora stati spogliati. Per mobilitare gli operai nel movimento
per costituire il GBP è importante capire da cosa risulta nei paesi imperialisti
il costo del lavoro e che ruolo esso ha attualmente nell’economia reale (cioè
nell’attività delle aziende capitaliste che producono beni e servizi).
In questo articolo mi propongo di dimostrare 1. che il costo
del lavoro non equivale al salario del lavoratore e tanto meno al valore della
forza-lavoro, 2. che il costo del lavoro è solo uno degli elementi di cui il
capitalista tiene e deve tener conto quando decide di chiudere o delocalizzare
un’azienda, è solo una delle voci, e in generale nemmeno la più importante, che
fanno andare in rosso i conti di un’azienda dei paesi imperialisti.
La conclusione cui voglio portare è che l’economia reale dei
paesi imperialisti è soffocata principalmente dalla rendita fondiaria,
immobiliare e finanziaria e dall’estorsione fiscale con cui lo Stato 1. mantiene
la sua enorme macchina militare d’aggressione e di repressione e uno stuolo di
parassiti imbonitori e 2. alimenta il capitale finanziario di cui è diventato
l’esattore. Il rimedio al degrado dell’economia reale non è diventare più
competitivi ed esportare di più, ma instaurare il socialismo e collaborare con
le masse popolari degli altri paesi.
Per evitare malintesi, premetto che è sbagliato attribuire il
comportamento (barbarico, distruttivo degli uomini, disgregatore della società e
saccheggiatore dell’ambiente) dei capitalisti e dei loro amministratori al fatto
che essi sono personalmente cattivi o stupidi (non capiscono cosa dovrebbero
fare per fare bene i loro interessi): non è così che funziona la società. Una
simile concezione porta fuori strada: indirizza la lotta di classe contro
l’individuo anziché contro il sistema capitalista di relazioni sociali,
sostituisce alla lotta di classe melense prediche moraliste, da preti o dotte
dissertazioni che dovrebbero insegnare ai capitalisti cosa fare per far bene i
loro affari: occupazione corrente di molti intellettuali della sinistra borghese
che fanno “i consiglieri del principe”.
I capitalisti e i loro amministratori non sono, in generale,
degli stupidi e se sono personalmente cattivi, è un effetto collaterale del
mestiere che fanno: sfruttare i lavoratori, sfruttare la debolezza dei
lavoratori, dei clienti e dei concorrenti, approfittare senza scrupoli di ogni
occasione per fare profitti.
I capitalisti sono principalmente gli amministratori, i
gestori e i difensori del sistema di relazioni sociali basato sulla produzione
capitalista di merci per valorizzare il capitale. Quello che fanno, non lo fanno
perché, come dicono professori e giornalisti della sinistra borghese, non
capiscono quello che loro cercano di spiegargli. Un capitalista che trasloca, ha
fatto i suoi conti e gli risulta che installandosi nei paesi arretrati e negli
ex paesi socialisti riassorbiti nel sistema imperialista, fa profitti più alti.
Se padroni delle fabbriche non fossero i capitalisti (altrimenti detto, se noi
li espropriassimo delle fabbriche come alla fine dell’epoca feudale la borghesia
in ascesa espropriò della terra i nobili e il clero), il problema non si
porrebbe. Questo è in effetti il rimedio contro la delocalizzazione delle
aziende: nella società borghese ogni azienda serve principalmente per produrre
profitti, questa è la fonte di tutto il malandare sociale, ecologico, culturale
e morale della società attuale. Abbiamo bisogno di una società in cui le aziende
esistano per produrre beni e servizi: la società comunista.
Fatto sta tuttavia che autorità, sindacalisti, professori e
giornalisti fanno grandi pressioni sui lavoratori perché accettino riduzioni di
salario per evitare la delocalizzazione delle aziende. Ogni volta che un
capitalista (Indesit, Electrolux, OM, ecc.: c’è solo l’imbarazzo della scelta)
annuncia che delocalizzerà, partono le pressioni sugli operai direttamente
condannati e sugli altri perché accettino riduzione di salari e l’eliminazione
di conquiste e diritti. In effetti i salari vengono ridotti e i diritti
cancellati, ma anche nei casi migliori la delocalizzazione è solo rallentata e
posticipata. Il capitalista magnanimo accetta di restare usufruendo di operai
peggio pagati e più obbedienti e dei contributi ed esoneri concessi
dall’Amministrazione Pubblica e, di solito, dopo un po’ ripropone il problema.
Perché non è vero che il costo del lavoro e i diritti degli
operai sono il principale fattore e tanto meno il solo che decide del profitto
del capitalista, che fa andare in rosso i conti delle sue aziende.
Da dove risulta il profitto del capitalista? Da dove risulta
il costo del lavoro?
Per fissare le idee, consideriamo il periodo di un anno e
guardiamo la sostanza, l’aspetto principale delle cose.
Ogni capitalista ricava soldi dalla vendita delle merci
prodotte. Da questi deduce i soldi che ha speso: 1. per gli acquisti
correnti e per i salari dei lavoratori, 2. per assicurazioni,
pubblicità e commissioni per avere gli ordinativi d’acquisto, 3. per
la quota di ammortamento del capitale che ha investito in attrezzature e
impianti che durano più anni (il capitale fisso), 4. per gli eventuali
affitti per edifici e terreni, 5. per gli interessi da versare alle
banche e le rendite da versare ai titolari di obbligazioni e di azioni
privilegiate, 6. per i contributi previdenziali, 7. per le tasse e
imposte che l’azienda versa direttamente all’Amministrazione Pubblica.(1)
La differenza tra il ricavato e le spese è la massa del profitto. Quindi
fa il rapporto tra questa massa e il capitale complessivo che ha impegnato
nell’azienda (quello per le attrezzature fisse e quello per le spese correnti) e
ha il tasso di profitto sul suo capitale, di solito espresso come
percentuale: quante unità di profitto su cento unità di capitale.
1.
Trascuro le interferenze e sovrapposizioni tra capitale investito nell’azienda e
capitale finanziario (azioni e obbligazioni), come trascuro la relazione tra
prezzo delle merci e ammontare del capitale fisso e altre relazioni ancora:
introdurle complicherebbe il filo del ragionamento senza aggiungere niente di
sostanziale.
Il ricavato della vendita delle merci chiama in causa
il prezzo a cui il capitalista vende le sue merci.
Le spese per gli acquisti correnti (di materie prime, di
materie ausiliarie, di servizi fissi o saltuari non svolti da personale
dell’azienda) chiamano in causa i prezzi delle merci (beni o servizi)
correntemente acquistate.
Sul prezzo delle merci come sul salario ritornerò più avanti.
L’ammortamento dipende da vari fattori: 1.
dall’ammontare del capitale investito nell’acquisto di beni (terreni, edifici,
macchinari, brevetti, impianti accessori e ausiliari dell’impianto
strettamente produttivo di beni e servizi, ecc.): il loro prezzo varia nel tempo
ed è oggetto di speculazioni (basta pensare ai terreni), sono resi (in
particolare i macchinari) inutilizzabili (obsoleti) da ragioni non strettamente
legate all’inutilizzabilità tecnica (innovazioni tecnologiche, legislazione
antinfortunistica, antinquinamento, ecc.), ecc., 2. dal tempo assunto per
l’ammortamento: è dettato da considerazioni e fattori non direttamente legati
alla produzione, ma alla legislazione e alle aspettative sull’andamento degli
affari.
Per impianti accessori e ausiliari si intendono tutti
quelli che non sono tecnicamente indispensabili alla produzione intesa in senso
stretto: abbattimento emissioni nocive, trattamento acque reflue, dispositivi di
sicurezza e d’emergenza, apparati antinfortunistici, spogliatoi, docce e mense
per i lavoratori, ecc. Tutte spese di cui il capitalista fa a meno se non ve lo
costringono la forza dei lavoratori organizzati o la legislazione del paese o se
ve lo esimono la corruzione e la compiacenza di autorità politiche e sindacali
(es. ILVA di Taranto).
In sintesi l’ammortamento dipende da questo: quanti anni il
capitalista accetta di aspettare per recuperare una somma di denaro che può
andare da quello che ha effettivamente speso all’atto dell’acquisto del
materiale fisso (che può di molto variare da paese a paese) a quello che gli
costerebbe oggi l’investimento (capitale attualizzato).
Le considerazioni fatte a proposito del capitale rispetto al
quale il capitalista calcola l’ammortamento, valgono anche per la valutazione
del capitale complessivo sul quale il capitalista calcola il suo tasso di
profitto.
Quanto al tasso di profitto, il capitalista confronta quello
che gli risulta, con quello che potrebbe avere investendo il suo capitale in
altri settori, in altri paesi, nel mercato finanziario, nella speculazione
(finanziaria, immobiliare, delle materie prime, ecc.). La libera circolazione
del capitale finanziario nel mondo, l’eliminazione dei “lacci e laccioli” che
frenavano operazioni finanziarie (compra-vendita di titoli) e speculative
(guadagni da variazioni del corso dei titoli finanziari), la libertà concessa
agli operatori della finanza creativa (creare titoli derivati dai titoli
corrispondenti ad azioni e obbligazioni che fanno parte del capitale investito
in aziende dell’economia reale, lanciare vendite allo scoperto, ecc.) ampliano
per il capitalista le possibilità di impiego redditizio del suo capitale, in
concorrenza con l’impiego nell’economia reale.
Già da quanto fin qui detto risulta che i profitti e i conti
dell’azienda non sono proprio come i conti di casa propria e che dipendono da
molte variabili che direttamente non hanno nulla a che fare con il costo del
lavoro impiegato in azienda.
Veniamo ora al prezzo delle merci (quelle
vendute e quelle acquistate) e al salario della forza-lavoro, una merce
questa ultima particolare per tre versi: 1. perché è l’attività di una persona a
cui la società borghese (fondata sulla produzione mercantile e capitalista e che
ingloba le conquiste di civiltà che essa ha apportato all’umanità) conferisce il
ruolo di cittadino titolare di diritti civili e politici, 2. perché dal salario
che riceve dipendono in sostanza le condizioni di vita del lavoratore e dei suoi
familiari, il grado della sua partecipazione alla ricchezza della società in
beni, servizi, cultura, divertimenti, ecc. (in definitiva la cultura e la
coesione sociale), 3. perché il salario complessivo dei lavoratori (il monte
salari) costituisce in ogni paese una parte importante della domanda di merci
(del mercato), una domanda indotta sicura (la massa dei lavoratori spende in
acquisto di merci tutto quello che incassa, una volta dedotti i pagamenti
obbligatori).
Ogni marxista dogmatico (cioè ozioso: ha imparato a memoria
alcune frasi del marxismo e le ripete) vi dirà che il prezzo di una merce è il
suo valore (il tempo di lavoro necessario per produrla) o grosso modo
corrisponde ad esso.
Questo è falso: Marx e i marxisti hanno costantemente negato
questa equivalenza. Inoltre è fuorviante: porta a non capire più niente del
mondo in cui viviamo (nella stagione dei saldi i prezzi scendono alla metà e
anche meno) e che ci proponiamo di trasformare: quindi gran confusione nella
testa e nei discorsi e un agitarsi a vuoto nella lotta contro i mali del mondo
che ci affliggono.
A fare il prezzo di ogni merce concorrono 1. il suo
costo di produzione, 2. le rendite (fondiaria, immobiliare e finanziaria)
direttamente pagate dal capitalista produttore, 3. gli interessi bancari
direttamente pagati dallo stesso, 4. le tasse e imposte (e “pizzi”, cioè le
imposte non legalizzate) direttamente pagate dallo stesso, 5. il rapporto tra
domanda e offerta, 6. i diritti di monopolio, 7. il cambio delle monete se si
tratta di commercio internazionale. Ogni capitalista che acquista merci per la
sua azienda (materie prime, materie ausiliarie, impianti fissi, ecc.) paga un
prezzo che deve coprire tutte queste voci sostenute dal capitalista che gliele
vende.
Ma ogni merce è prodotta a mezzo di altre merci (che passano
interamente nel prodotto o costituiscono gli impianti fissi) oltre che a mezzo
di forza-lavoro. Di modo che a ogni passaggio (compra-vendita) il suo prezzo si
porta dietro come costo di produzione tutte le voci che entrano nel prezzo delle
merci usate per la sua produzione. Illustro la cosa con un esempio: una tassa
che l’Amministrazione Pubblica introduce su una merce A, si ripercuote sui costi
di produzione (e quindi sui prezzi) di tutte le merci B (che sono un certo
numero) nella cui produzione la merce A entra direttamente. Non è finita qui,
perché i prezzi di ognuna delle merci B si ripercuotono sui costi di produzione
(e quindi sui prezzi) di tutte le merci C (che sono in generale un numero più
grande di quello delle merci B) nella cui produzione entra direttamente una
delle tante merci B. E così via. In breve una tassa introdotta
dall’Amministrazione Pubblica in un punto del sistema produttivo di merci, alza
i costi di produzione (e quindi grosso modo anche i prezzi) di un gran numero di
merci del sistema produttivo: la somma dei prezzi del complesso di merci
prodotte aumenta di una quantità che è un multiplo della tassa introdotta (il
rapporto tra la somma dei prezzi e la tassa introdotta si chiama moltiplicatore
dei prezzi e la sua entità è calcolabile conoscendo le connessioni e le
relazioni delle varie aziende che compongono il sistema produttivo ed è
rilevabile se ci sono efficienti istituzioni di statistica). Quanto detto per la
tassa dell’esempio considerato, vale per ogni aumento o diminuzione del costo di
produzione o del prezzo di una merce dovuti a uno dei sette fattori che lo
compongono e che abbiamo visto sopra.
Consideriamo ora il salario percepito dal lavoratore e
il costo del lavoro pagato dal capitalista.
Questo dal lato del capitalista è semplicemente un costo di
produzione che ai suoi fini distingue in diretto (buste paga), indiretto (i
servizi che deve lui stesso fornire al lavoratore: mensa, docce, spogliatoi,
infermeria, ecc.), differito (contributi previdenziali e assicurativi) e altre
voci.
Dal lato del lavoratore va a coprire i costi della vita (le
merci che acquista) e i gravami che gli sono imposti: affitti, tariffe per
allacciamenti in rete (telefono, gas, ecc.), assicurazioni, tasse e imposte
dirette (sul reddito), interessi per prestiti e mutui, ecc. Sul prezzo delle
merci che acquista, sugli affitti che paga, sulle tariffe si ripercuotono tutti
i fattori che vanno a comporre i prezzi delle merci, come i sette che abbiamo
sopra considerato parlando del prezzo di ogni merce.
Ne segue che il costo del lavoro considerato dal capitalista
comprende il salario del lavoratore più altre voci e che il salario del
lavoratore corrisponde a beni e servizi di cui il lavoratore usufruisce in una
quantità che però dipende dal prezzo di ognuno di essi e dagli altri fattori
(appena considerati più sopra) che decurtano il salario di cui egli dispone
liberamente.
Ne segue tra l’altro che comparare il salari di lavoratori di
diversi paesi semplicemente confrontando le rispettive buste paga al cambio
corrente, è un’operazione sciocca o un imbroglio. Sia perché diversi sono i
gravami imposti al lavoratore che decurtano la parte di salario di cui può
disporre per vivere, sia perché diversa è la quantità di beni e di servizi che
ognuno dei due si può procurare con la parte del salario di cui dispone
liberamente, sia perché diverse sono le condizioni di vita della società in cui
ognuno di essi vive e con cui misura la propria condizione di vita (esempio:
provate a cercare un lavoro in Italia se non avete un recapito telefonico o la
patente).
Credo che nessun lettore può negare le considerazioni fin qui
fatte. Ma a questo punto insorgeranno da lati opposti il marxista dogmatico e
chi tiene il marxismo “in gran disprezzo”. Il primo per richiamare alla verità
delle leggi fondamentali dell’economia marxista: il valore di una merce è dato
dal tempo di lavoro necessario per produrla, il salario è il valore della forza
lavoro. Il secondo per gridare trionfante: “Allora anche voi comunisti convenite
che il marxismo è superato!”, cosa che neghiamo decisamente. Vale quindi la pena
fare una digressione nel campo della teoria.
Una digressione
La critica marxista dell’economia classica (cioè delle teorie
dei ricercatori che da W. Petty (1632-1687) a D. Ricardo (1772-1823) avevano
indagato il nesso interno dei rapporti borghesi di produzione) ha ripreso,
ribaltato e concluso l’economia classica. Anzitutto ha distinto la produzione
capitalista (valorizzazione del capitale producendo merci) dalla produzione di
ricchezza (di beni e servizi) in generale, le cui origini si perdono nei
millenni e si confondono con le origini della specie umana e ha mostrato i
caratteri progressivi e quelli distruttivi dell’unità dei due termini. Quindi ha
esposto in forma logica il percorso compiuto dall’umanità dalla comparsa
antidiluviana dell’economia commerciale (cioè della produzione per scambiare)
all’economia capitalista della metà del secolo XIX nella forma più sviluppata
che essa aveva raggiunto, ha indicato le leggi del suo sviluppo e quindi, sulla
base del materialismo storico, lo sbocco verso cui andavano gli uomini che la
praticavano.
Marx chiama valore “il tempo di lavoro socialmente necessario
per produrre un oggetto”. Nella produzione mercantile, cioè quando gli uomini
producono oggetti per scambiarli, il tempo di lavoro socialmente necessario
impiegato per produrre un oggetto decide della sua produzione. Nella produzione
feudale o schiavista, nell’economia naturale (quella in cui il gruppo umano
lotta senza divisioni in classi contro la natura per strapparle quanto
necessario a vivere), il tempo di lavoro socialmente necessario non gioca alcun
ruolo, non esiste, come non esiste furto dove non c’è proprietà. Per ogni
lavoratore (e per il suo sfruttatore), conta solo il tempo di lavoro
individualmente impiegato per produrre l’oggetto cercato. Tanto meno il valore
aveva il ruolo di regolare la produzione: produrre solo quello che si è in grado
di produrre in un tempo non maggiore del tempo socialmente necessario. Solo
quando si produce per scambiare, “il tempo di lavoro socialmente necessario per
produrre un oggetto” entra in azione, diventa qualcosa che gioca un ruolo,
perché senza saperlo si scambiano tra loro cose diverse in quantitativi tali da
scambiare a parità di “tempo di lavoro socialmente necessario”, anche se il
tempo individualmente impiegato è diverso. La diversità dei tempi
individualmente impiegati è un motore dello scambio: quanto più ci metterei se
lo producessi io, tanto più sono motivato ad acquisirlo attraverso lo scambio.
Lo scambio di prodotti a parità di tempo di lavoro socialmente
necessario per produrli, è la sintesi, l’anima dell’economia commerciale. La
teoria del valore-lavoro è il concetto dell’economia commerciale: la fonda come
la teoria degli atomi, dei loro legami, delle loro reazioni e delle molecole
fonda la chimica. La scienza dell’economia commerciale e capitalista si basa su
questa categoria.
La legge del valore-lavoro è con la legge della valorizzazione
del capitale (P = c + v + pv) la base della teoria marxista dell’economia
borghese, che è la scienza dei rapporti borghesi di produzione, la conclusione e
la critica dell’economia politica classica.(2)
Ma nessuno trova in giro il valore, né riscontra su nessun listino di prezzi la
legge del valore-lavoro, come nessuno vede atomi o molecole. Il valore non ha
praticamente nulla a che fare direttamente con il prezzo a cui le singole merci
oggi sono vendute e comperate, né in periodo di saldo né in altri periodi
dell’anno, né in periodi di abbondanza né in periodi di carenza. Ma solo grazie
a questa categoria e alla legge della valorizzazione del capitale si riesce a
spiegare passo dopo passo tutta la trasformazione che ha subito l’attività
economica degli uomini negli ultimi sei secoli, a partire dall’Italia e poi
(dopo la Controriforma) dal resto d’Europa fino ad estendersi oggi a gran parte
del mondo e a conoscere le leggi che governano la crisi generale del capitalismo
in cui siamo coinvolti e che si riversano su tutti gli altri aspetti e terreni
della vita umana, individuale e sociale.
2.
La legge fondamentale dell’economia capitalista è la legge della valorizzazione
del capitale che è la risposta data da Marx alla domanda: come fa il capitalista
ad aumentare il suo capitale benché compri e venda ogni bene e servizio al suo
valore - che è dato dalla legge del valore-lavoro secondo cui il valore di ogni
merce è il tempo di lavoro socialmente necessario per produrla? La legge della
valorizzazione del capitale algebricamente è espressa dalla formula
P = c + v + pv
dove P
è il capitale con cui il capitalista si ritrova alla fine di un processo
produttivo,
c il
valore del capitale costante (strutture e mezzi di produzione, materie prime e
complementari) consumato o logorato nel processo produttivo,
v il
valore della forza lavoro degli operai che il capitalista ha fatto lavorare,
pv
la parte del valore prodotto dagli operai (del tempo di lavoro svolto dagli
operai) di cui il capitalista si appropria (lo si chiama plusvalore = tempo di
pluslavoro), dopo aver dato all’operaio un salario eguale al valore della sua
forza lavoro.
Con questa
legge della valorizzazione del capitale Marx risolse il problema posto
dall’economista borghese David Ricardo (1772 - 1823). Marx ha connesso in un
sistema coerente queste e altre scoperte di Ricardo e di altri economisti
borghesi, mostrando il loro significato in termini di relazioni tra individui e
tra classi sociali e le leggi di sviluppo della società che, posto il
materialismo storico, da questo insieme derivavano.
Per capire la composizione della materia che ci circonda, per
scomporla e ricomporla e produrre nuove sostanze, cioè in chimica, bisogna
rifarsi alle molecole e più a fondo agli atomi e alle leggi e nozioni relative
ad essi che costituiscono la chimica come scienza. Atomi e molecole non le
conosciamo attraverso nessuno dei nostri sensi. Li conosciamo attraverso
l’elaborazione di conoscenze sensibili, elaborazione che ci ha portato a una
teoria la cui verifica è la pratica del laboratorio e dell’industria chimica. Lo
stesso avviene nel campo dell’economia capitalista (che è un campo diverso dal
campo dell’economia feudale, schiavista, naturale, ecc. del passato e da quello
dell’economia comunista del futuro).
Il marxista dogmatico equipara il prezzo corrente di una merce
al suo valore e il salario di un CCNL al valore della forza lavoro. Rimastica e
rimugina le formule del marxismo, senza capirne il senso e senza riflettere
sulla storia che si è svolta da quando la categoria che i classici e Marx hanno
astratto dalle (ricavato studiando le) relazioni sociali borghesi, esprimeva
effettivamente un fatto concreto. Non fa che trasporre pari pari una categoria
semplice, che esprimeva i rapporti dominanti di una società primitiva (alle
origini antidiluviane dell’economia mercantile), in una società più sviluppata
dove essa al massimo direttamente esprime solo alcuni rapporti subordinati,
rapporti che esistevano anche prima che si formasse la società più sviluppata.(3)
D’altra parte il dispregiatore del marxismo, rigettando
l’alfabeto (l’abc) della scienza dell’economia borghese, non riesce a leggerne
il corso corrente. Donde il ridursi dell’economia ufficiale borghese successiva
al marxismo a studi più o meno dotti di “ciò che si vede”: a dottrina del
funzionamento empirico dei mercati, delle aziende e delle borse, a elaborazioni
matematiche di questi funzionamenti o a libere (arbitrarie, soggettive)
narrazioni dettate dalle impressioni e dai desideri. Non è strano quindi che i
loro cultori siano sorpresi dagli avvenimenti.
Riccardo A.
3.
Per una esposizione più dettagliata di questa sostituzione di categorie semplici
(espressioni di relazioni dominanti in una fase che sta all’inizio logico della
società attuale) alle categorie più concrete, espressione delle relazioni
dominanti in una società più sviluppata, rimando a K. Marx, Fondamenti della
critica dell’economia politica (Grundrisse) - Il metodo
dell’economia politica in Opere complete (Editori Riuniti) vol. 29
pagg. 35-36.
http://www.nuovopci.it/classic/marxengels/ecopol.html